Psicodinamica dei gruppi mediativi

Di Salvatore Azzaro
I GRUPPI  SPECIALISTICI O GRUPPI DI LAVORO

Del tutto inaspettatamente, mentre preparavo questo articolo, mi sono imbattuto nella descrizione che il sociologo statunitense C.H. Cooley dava già nei primi anni del 900 dei gruppi primari. Ve la propongo poiché la ho trovata sorprendentemente calzante con i nostri gruppi di lavoro al tavolo di mediazione.

“Per gruppi primari intendo quelli caratterizzati da una cooperazione intima e faccia a faccia…il risultato di questa associazione intima è, dal punto di vista psicologico, una certa fusione delle individualità in un tutto comune, in modo che la vita comune e l’obbiettivo del gruppo diventa la vita comune e l’obbiettivo di ognuno…Il modo più semplice di descrivere questa totalità è quello di dire che essa è un noi: ciò implica la specie di simpatia e di identificazione mutua di cui “noi” è l’espressione naturale. Ognuno vive nel sentimento di questo tutto e trova in questo sentimento gli obbiettivi principali che fissa nella sua volontà…I gruppi primari sono primari nel senso che forniscono all’individuo la sua esperienza più primitiva e più completa dell’unità sociale; lo sono anche nel senso che non sono mutevoli allo stesso grado in cui lo sono le relazioni più elaborate ma che formano una fonte relativamente permanente da cui il resto deriva sempre…Così questi gruppi sono delle fonti di vita non solo per l’individuo ma per le istituzioni sociali.”

Allora possiamo dire con Cooley che il gruppo di lavoro che si forma attorno ad un tavolo di mediazione è un “gruppo primario” oppure un “gruppo specialistico”.

Detto questo, il passaggio successivo è quello di definire quali siano i criteri di funzionamento dei piccoli gruppi specialistici. Il quesito è affascinante ed ha impegnato più volte, ci scommetto, la mente di molti mediatori. Il desiderio inconfessato è quello di conoscere il funzionamento del gruppo per evitare gli errori più comuni in cui un gruppo meditativo può incorrere.

Attingo all’opera di D. Anzieu e J.Y. Martin (Dinamica dei piccoli gruppi, Borla 1997) per proporvi il difficile tema dello schema dinamico di funzionamento dei gruppi specialistici.

So già che incorrerò nel disappunto degli estimatori della mediazione umanistica sul modello della ineguagliata maestra Jacqueline Morineau e dei miei amici puristi della mediazione civile e commerciale ma, avendo definito il gruppo mediativo come un sistema chiuso, si può provare ad ipotizzare l’elaborazione di un modello di funzionamento sulla base di una valutazione energetica che attinga ai principi della fisica di energia utilizzabile e di energia latente.

LA DINAMICA NEI GRUPPI

Negli studi di psicologia sociale il modo in cui i singoli individui si formano le impressioni sulle persone ed il modo in cui i singoli partecipanti percepiscono i gruppi sono stati temi di indagine fin dai primi decenni del ‘900.

Per quanto riguarda i gruppi ad esempio un classico studio di Hamilton e Sherman del 1996 ha dimostrato che i singoli partecipanti percepiscono un certo livello di unità all’interno dei gruppi. Questa  percezione  di  aggregazione  e  di  appartenenza  è  stata  in  un  certo  modo  misurata  e classificata già nel 1958 da Campbell ed è stata definita con il termine “entitatività” (entitativity). Il termine si riferisce alla percezione che un membro del gruppo ha nel momento in cui percepisce

il gruppo stesso come un’entità definita e munita di una sorta di “confine”. La scala della misurazione di tale parametro va da un minimo molto basso di percezione della dimensione gruppale (ad esempio l’idea della fidelizzazione che possono percepire i clienti di una catena di supermercati) ad un massimo determinato da un’alta sensazione di appartenenza (ad esempio i membri di un club molto esclusivo).

Posizionare il proprio gruppo di appartenenza lungo la scala tra i due estremi determina anche le aspettative che ciascun membro del gruppo ha circa la personalità degli altri membri del gruppo, gli scopi ed i valori del gruppo stesso. I fattori che determinano la variazione di percezione dei membri circa il proprio gruppo di appartenenza e dunque la dimensione di entitatività del gruppo sono: la somiglianza o la vicinanza tra i membri del gruppo, l’organizzazione del gruppo, la percezione di reciproca interdipendenza, quella di un comune obbiettivo, le aspettative.

Ebbene, percepire e comprendere l’esistenza di tali elementi nella percezione che i singoli membri di un gruppo di lavoro hanno, può aiutare il conduttore del gruppo ad agire nelle dinamiche endogene  e  ad  incrementare  aspetti  mancanti  o  carenti  per  generare  il  necessario  senso  di appartenenza, fiducia e collaborazione dei partecipanti o per indirizzarli verso l’obbiettivo finale. Non si pensi al conduttore del gruppo come ad un manipolatore o come ad un soggetto che condiziona le dinamiche del gruppo ma più semplicemente come al coordinatore delle differenti (ed a volte dissonanti) energie che si generano nella dimensione gruppale ed a quelle di cui ogni membro è naturale portatore.

In realtà la dinamica di un gruppo di lavoro è un processo auto generativo e tautologico: percepire un gruppo con elevata entitatività genera la percezione di appartenenza ad un insieme di soggetti simili, molto connessi e con un obbiettivo comune e tale percezione porta e stimare positivamente il lavoro del gruppo ed a massimizzare la percezione dell’obbiettivo comune. Possiamo dire che si può definire questa dinamica come “uroborica” e self consistente.

Si parla allora della dimensione gruppale del lavoro. In altre parole potremmo dire che il gruppo nasce solo quando i singoli partecipanti, attingendo dall’esperienza stessa del lavoro di gruppo, percepiscono l’utilità della cooperazione e realizzano il vantaggio del risultato comune.

Per coloro che hanno esperienza di mediazione sarà facile comprendere questo assunto. Molte volte, nonostante lo sforzo sincero del mediatore per rappresentare alle parti ed agli avvocati il vantaggio della mediazione, non tutti i partecipanti al tavolo di mediazione entrano nella dimensione cooperativa; la sensazione che ne deriva è allora quella di un rifiuto, consapevole o inconscio, di aderire alla dimensione gruppale.

Nella mia esperienza come mediatore professionista posso dire che spesso non è un effetto immediato; ci possono volere anche più incontri perché i singoli membri del tavolo di mediazione o le cosiddette coppie cooperanti cliente/avvocato mettano a fuoco il rifiuto della dimensione gruppale. In  letteratura è il famoso primo incontro ed  ancorpiù il reiterato rinvio del primo incontro (sempre gratuito ben si intende) l’area temporale nella quale si gioca la partita.

Il gruppo, in effetti, impara dall’esperienza ma diventa cooperativo solo se e solo quando in qualche modo realizza l’utilità della cooperazione.

Inutile dirlo, molto del risultato di questo passaggio dipende dal conduttore del gruppo; nel caso che ci riguarda professionalmente, quindi nel caso della mediazione, molto dipende dal mediatore. Nei corsi per mediatori, anche in quelli avanzati ed in letteratura si è molto parlato in questi anni delle “doti del mediatore esperto” (non userò più questo aggettivo da ora in avanti; credo siano maturi i tempi per parlare di mediatore professionista) e si è dunque disquisito molto e con profitto di autorevolezza, di competenza, della capacità di generare fiducia e della capacità di condurre le parti verso un accordo (i miei amici puristi della mediazione storceranno il naso a questa mia ultima affermazione, ma questa è un’altra storia) ma la verità è che il mediatore per primo deve scoprire la propria capacità di mettersi  in gioco e di far emergere la propria personalità gruppale mettendola poi a disposizione del gruppo.

Questo è un passaggio delicato ed in effetti mai scontato perché passa attraverso un certo grado di percezione di sé.  Proprio così. Percezione di sé come personalità gruppale. La brutta notizia é che non  sempre  come  mediatori,  anche  se  esperti,  siamo  disposti  a  mettere  in  gioco  la  nostra personalità gruppale; non tutti i giorni sono uguali, non sempre la concentrazione è al massimo, non tutte le mediazioni sono adatte a sperimentare l’esperienza della dinamica dei gruppi.

In realtà sarebbe più corretto dire che non sempre siamo pronti a cogliere o a stimolare la dinamica che vorremmo all’interno del gruppo nel quale ci troviamo ad operare poiché la dinamica gruppale esiste a prescindere solo che a volte noi non ne cogliamo l’aspetto centrale che essa ci indica.

Ma è vera una cosa: tanto più il mediatore, e poi i singoli partecipanti al tavolo della mediazione, sperimentano la capacità di “cooperare per risolvere” tanto più nella dinamica globale del gruppo mediativo emerge la componente costruttiva.

Antonello Correale nel suo pregevole lavoro (Area traumatica e campo istituzionale, Borla 2006) ci ricorda che già Bion definiva il gruppo di lavoro come “la funzione razionale del gruppo” riconducibile al “principio di realtà” di matrice freudiana. Freud intuì per primo che la mente umana ha a disposizione un funzionamento psichico, basato sulla fantasia, che permette di trarre soddisfacimento dall’immaginazione della situazione desiderata; il passo fondamentale dello sviluppo psichico dell’individuo avviene quando la mente realizza la differenza tra il soddisfacimento in fantasia ed il faticoso raggiungimento reale dell’obbiettivo nella realtà. Ciò comporta inevitabilmente la capacità di panificare un’azione progettuale e strategica che tenga conto razionalmente dei vincoli della realtà.  Correale conclude che la realtà ci impone dunque un sacrificio, un rimando, ci impone l’accettazione del limite ed invoca la saggezza.

Nel procedimento di mediazione, nel lavoro del gruppo mediativo, la realtà ci impone dunque la consapevolezza di dover tenere conto di molte cose anche pesantemente difformi dal nostro immaginato. Lo scontro verbale tra le parti; il confronto tra le posizioni processuali che gli avvocati riportano al tavolo di mediazione, gli obbiettivi individuali e, tanto spesso, le proiezioni che  le  parti  hanno  lungamente  costruito  sull’agito  della  controparte;  tutto  ciò  deve  dunque emergere plasticamente in mediazione e deve essere stemperato alla luce del principio di realtà. I moderni esegeti della negoziazione dicono che occorre “contestualizzare”.

Ecco perché si dice generalmente che per una buona mediazione occorre tempo! Ecco perché occorre stoppare sul nascere i frettolosi profeti di sventura che appena seduti dicono …”qui c’è poco da mediare” .

Nel lavoro di gruppo occorrerà dunque accettare che le cose possano non andare subito nella direzione che noi abbiamo desiderato e che appaiono utili (solo perché abbiamo immaginato nel nostro delirio solipsistico che siano la cosa migliore per noi, la decisione giusta, la sola strada percorribile) poiché nella realtà del gruppo, nel lavoro contestuale e non ideologico, occorre sempre tenere conto dell’altro come portatore di energie e idee anche difformi dalle nostre alle quali, in un certo modo, occorre uniformarsi o che comunque occorre accogliere.

In questo senso si dice che il gruppo di lavoro opera nel tempo ed attinge dall’esperienza; accetta le frustrazioni, limita il desiderio individuale ed immediato dei suoi membri perché esso, il gruppo, è centrato sul compito, sul fine dichiarato e condiviso del gruppo.

Possiamo dunque concludere che, nel caso dei nostri gruppi mediativi, il gruppo lavora proficuamente se è centrato sull’accordo.

Non è un passaggio scontato né banale poiché deve essere chiaro che affinché i membri del gruppo mediativo si sentano pronti a centrarsi razionalmente ed emotivamente sul procedimento di mediazione  e  successivamente  sull’accordo  da  perseguire  è  necessario  che  essi  si  sentano “protetti”. A questa sensazione di sicurezza che deve pervadere tutti i componenti del gruppo mediativo  cooperano  senza  dubbio  un  buon  setting,  una  reciproca  consapevolezza  di  essere ascoltati ed accolti, un clima disteso e palesemente mirato a condividere una soluzione accettabile da tutti i membri del gruppo e, ultimo ma non ultimo, la capacità del mediatore di far sentire il gruppo protetto.

DINAMICA DEI GRUPPI DI LAVORO SPECIALISTICI

Se  abbiamo  consolidato  l’affermazione  che  il  gruppo  mediativo  è  un  sistema  chiuso  allora possiamo accogliere l’idea che se ne possa elaborare un sistema di funzionamento.

Negli anni passati mi sono battuto contro le idee di quei mediatori che teorizzavano una modellizzazione del procedimento di mediazione. L’idea di proceduralizzare uno strumento flessibile e duttile come la mediazione mi appariva un vero sacrilegio. Ricordo con affetto ed in un certo  senso  rimpiango  le  lunghe  discussioni  con  un  mio  amico  e  collega  avvocato,  valido

mediatore, che parlava di “scientificità della mediazione”; erano discussioni accese che mi vedevano definitivamente contrario alla individuazione di una sorta di “prontuario del buon mediatore”.

Ebbene, oggi sono pronto a cambiare idea e comincio a considerare valida l’ipotesi di un modello di funzionamento del gruppo mediativo fondato sulla base di ipotesi energetiche che postulano l’esistenza di strutture latenti ed in costante evoluzione.

L’idea rivoluzionaria di prevedere e calcolare l’energia necessaria per il funzionamento di un gruppo di lavoro  parte dagli studi di due psicoanalisti, Didier Anzieu e J.Y. Martin (D. Anzieu e J.Y. Martin, Dinamica dei piccoli gruppi, Borla 1990). I due studiosi osservarono che ogni gruppo di lavoro possiede un certo quoziente di energia costitutiva ma che non tutta l’energia del gruppo viene utilizzata per lo scopo per il quale in gruppo è costituito e lavora. Vi è dunque un alto quoziente di energia latente che rimane inutilizzata; essa viene dispersa oppure indirizzata in attività distruttive e dannose per il gruppo.

La teoria mi è parsa dunque interessante e meritevole di una riflessione. Soprattutto alla luce delle esperienze come mediatore civile. Mi sono infatti chiesto se un mediatore professionista possa riuscire a riconoscere l’energia del suo gruppo mediativo, se possa evitare che l’energia latente si disperda o generi pericolosi attriti nel gruppo e se, infine, egli sia in grado di indirizzare la giusta quantità di energia nella direzione voluta. Cioè verso l’accordo.

Allora assumiamo che:

E = energia costitutiva del gruppo; e = energia effettivamente utilizzata; ŋ = energia latente. Attingendo alla fisica i due autori elaborano la seguente formula per descrivere il fenomeno di cui stiamo parlando: E = e + ŋ .

Seguendo il nostro ragionamento, per ottenere un funzionamento ottimale del gruppo mediativo sembra dunque indispensabile individuare l’energia costitutiva del gruppo (formata dalle somma delle energie individuali dei singoli componenti e dall’energia volta al raggiungimento dello scopo del gruppo); definirne un utilizzo concordato; ma soprattutto occorre ridurre il più possibile l’energia latente ossia l’energia inutilizzata e quella indirizzata verso obbiettivi dannosi che costituiscono un ostacolo per l’obbiettivo concordato.

Assumiamo dunque che vi sia  un’energia costitutiva e positiva che il gruppo utilizza, più o meno consapevolmente,  vero  obbiettivi  creativi  e  comuni  e  che  vi  sia  altresì  un’energia  latente  e distruttiva che il gruppo utilizza, il più delle volte inconsapevolmente, per sabotare l’obbiettivo finale dichiarato del gruppo.

In generale si può semplificare il concetto dicendo che occorre mettere il gruppo mediativo nella condizione favorevole per utilizzare la propria energia in modo appropriato e proficuo.

Avrete notato che ho usato la costruzione dell’ultima frase in modo impersonale ma al lettore esperto non sarà sfuggito che colui che deve porre il gruppo in condizione favorevole è il suo conduttore. Ossia il mediatore.

Si apre dunque il tema generale della conduzione dei gruppi ed in modo particolare il tema del conduttore dei gruppi mediativi.

Il concetto di “locomozione di gruppo” è stato per la prima volta impiegato da Cartwright e Zander nel 1953 e si riferisce al campo psicologico in cui il gruppo si evolve. In altre parole i due studiosi hanno dimostrato che la locomozione del gruppo è costituita dallo spostamento del gruppo di lavoro da una regione psicologica all’altra. Per area psicologica si intende lo spostamento del gruppo dalla dinamica individuale alla dinamica gruppale; le alleanze negoziali interne (anche quelle momentanee o parziali); gli scopi del gruppo (quelli dichiarati e quelli nascosti); le vie che queste dinamiche seguiranno.

Percepire  e  comprendere  queste  dinamiche  e  condurre  gli  spostamenti  tra  le  varie  aree psicologiche del gruppo mediativo è un compito difficile e delicato ed è comunque appannaggio ed onere del mediatore professionista.

Lo psicologo polacco Kurt Lewin nel 1959 teorizzò che da un punto di vista dinamico il gruppo primario debba funzionare come un omeostato per risolvere i sistemi di tensione che si generano al suo interno. [nota 1 secondo Lewin la teoria che il comportamento umano sia la reazione ad uno stimolo è riduttiva. La persona secondo Lewin è un universo complesso ed aperto al mondo. Questa molteplicità di evocazioni di stimoli, di reazioni, di compensazioni personali, questa ricchezza di elementi tra loro correlati ed interdipendenti rappresentano un sistema che si tiene insieme per una serie di tensioni. E’ ciò che l’autore chiamò “la teoria del campo”]

Ritengo che nel gruppo mediativo e nella dinamica del procedimento di mediazione questa dinamica di auto cura non esista di per sé. Vero è che il gruppo mediativo impara dall’esperienza (gli approdi  delle precedenti sessioni congiunte e  l’auto analisi della propria  posizione nelle sessioni separate costituiscono quella che si può definire “l’esperienza del gruppo mediativo”) ma, per  quello  che  ho  potuto  osservare  in  questi  anni  di  lavoro,  solo  il  mediatore  funziona  da omeostato e dunque solo il mediatore riesce a percepire ed a gestire le energie auto distruttive del gruppo.

Cartwright e Zander ci dicono dunque che in una prospettiva teorica possono essere considerati due sistemi di tensione: un sistema di tensione positiva ed un sistema di tensione negativa.

Il sistema di tensione positiva è in rapporto con i progressi del gruppo verso i suoi obbiettivi e tali obbiettivi vengono raggiunti soltanto grazie alla risoluzione progressiva di questo sistema di tensione, proporzionalmente decrescente in relazione alle tappe di avanzamento (entro certi limiti più il gruppo progredisce verso l’obbiettivo dichiarato e meno si manifesta l’energia latente auto distruttiva o limitante).

Il  sistema di tensione negativa è in rapporto con i meccanismi di funzionamento del gruppo e con i suoi sforzi per migliorare le relazioni interpersonali tra i membri. Il monitoraggio e la risoluzione permanente di questo sistema di tensione è indispensabile per il mantenimento e la sopravvivenza del gruppo.

Se questo è vero il mediatore professionista dovrà avere particolare attenzione tanto per il primo quanto per il secondo sistema di tensione e concentrare  la sua attenzione anche sull’uso che il gruppo fa di questi sistemi di tensione e dell’energia che il gruppo stesso utilizza.

Dunque, tornando alla nostra formula fisica  E  = e + ŋ, Cartwright e Zander assumono che l’elemento e (ossia l’energia effettivamente utilizzata dal gruppo di lavoro) debba essere suddiviso in due parti: energia di produzione ed energia di mantenimento e dunque elaborano la formula fisica e = eᴾ +eᴹ.

In  questa  formula  eᴾ  indica  l’energia  utilizzata  dal  gruppo  per  il  raggiungimento  dei  suoi obbiettivi; tale energia si manifesta mediante attività strumentali cioè tendenti al raggiungimento di un risultato che non si ottiene in modo automatico ma che abbisogna di uno sforzo creativo ed adattivo e che può essere chiamata “energia di produzione”; mentre  eᴹ  indica l’energia utilizzata dal gruppo di lavoro per il suo mantenimento; essa si manifesta in attività consumatorie il cui obbiettivo è essenzialmente il mantenimento della coesione del gruppo ed è fortemente influenzata dagli stati emozionali e motivazionali del gruppo stesso.

Dunque, se adottiamo una prospettiva di efficacia, sempre nell’ambito dell’equazione  e = eᴾ + eᴹ, un gruppo di lavoro ha interesse a che  eᴾ  >  eᴹ poiché, definita la quantità di energia utilizzabile  di cui il gruppo meditivo dispone per il suo funzionamento, tanto più il gruppo di lavoro spende energia per mantenere la propria coesione e per regolare i sistemi di tensione interni tanto meno gliene rimane per progredire verso i propri obbiettivi.

Possiamo dunque affermare che la focalizzazione e la condivisione degli obbiettivi di un gruppo mediativo assumono un valore straordinario anche solo per la sopravvivenza del gruppo stesso e per la gestione e la risoluzione dei suoi sistemi di tensione.

Infatti, se gli obbiettivi sono pienamente e dichiaratamente condivisi essi finiscono per esercitare un’attrazione per tutti i membri del gruppo ed assumono una valenza positiva trainante. In questo caso   l’energia   di   produzione   del   gruppo   mediativo   diventa   prevalente   sull’energia   di mantenimento ( eᴾ   >   eᴹ ) polarizzandosi verso la soluzione dei sistemi di tensione interni; le rispettive posizioni dei membri del gruppo sono meglio percepite dagli uni e dagli altri e valutate con tolleranza. Ognuno dei membri del gruppo vede rinforzarsi la propria posizione nel gruppo e vede altresì rinforzarsi la propria motivazione, partecipa maggiormente e contribuisce alle attività del gruppo in maniera strumentale e finalizzata all’obbiettivo.

Viceversa, se gli obbiettivi esercitano repulsione o non sono dichiaratamente condivisi, l’energia di produzione del gruppo mediativo diventa soccombente rispetto all’energia di mantenimento ( eᴾ<  eᴹ ) disperdendosi verso la soluzione del sistema di tensione negativa (funzione di regolazione delle relazioni e dei conflitti interpersonali). In questo caso si osservano all’interno del gruppo mediativo la comparsa di fenomeni di incomprensione e di attriti apparentemente ingiustificati, di conflitti interpersonali e di disaffezione verso l’obbiettivo oltre naturalmente all’emersione di fenomeni di conflitto interpersonali che fanno riemergere vecchie tensioni, ansia e disagio che, a loro  volta,  generano  la  comparsa  di  comportamenti  di  attacco  e  fuga  (accuse  reciproche, digressioni rispetto ai temi centrali del gruppo, attività non pertinenti rispetto all’oggetto o all’obbiettivo del gruppo, valutazioni premature di abbandono del tavolo di mediazione).

La scommessa e l’impegno del mediatore professionista è dunque quello di riconoscere ed incrementare nella percezione del gruppo mediativo i fattori di progresso verso gli obbiettivi dichiarati e di lasciare sullo sfondo (non di trascurare, che questo potrebbe causare danni ancora maggiori)  i sistemi di tensione negativa che siano emersi, dando loro un riconoscimento ed un’accoglienza adeguate ma non centrale.